Quando ero piccola le estati al mare duravano almeno tre mesi. E il mare era quello di Terracina, con quel suo litorale che, per merito del baby boom, dei suoi bassi fondali cristallini, delle tante mamme casalinghe e delle scuole che ricominciavano a ottobre, per tutta la stagione era definito la spiaggia dei bambini.
Ma ad agosto…
Ad agosto, quando anche i papà erano in ferie, le temperature si facevano bollenti e le spiagge gremite, spesso si andava in “montagna”.
La “montagna” in realtà erano le Colline di Santo Stefano.
La mattina di buon’ora tutta la famiglia, declinata nei vari rami di parentela, si attrezzava per partire e andare a trascorrere la giornata al fresco. E quando parlo di attrezzarsi intendo: sdraie, sedie, tavolinetti, teli per stendersi, palloni di vari ordini e misure, tamburelle, mazzi di carte per i più pigri, taniche vuote per l’acqua, boccioni pieni di vino, ogni ben di dio mangereccio e l’immancabile griglia.
Dell’attrezzatura omologata, l’oggetto che ricordo più vivamente era il famoso “pentolone”. Questo pentolone era una specie di totem familiare. Tutto annerito all’esterno, tirato a lucido all’interno, intorno e dentro di lui passava la storia delle estati della mia famiglia. E nel mese di agosto il sacro calderone, in compagnia di un treppiede in ferro, veniva in gita con noi. Ma ne parlerò più avanti.
La giornata si svolgeva secondo piani prestabiliti. Caricamento scientifico delle attrezzature e delle vettovaglie nelle macchine, poi, dopo faticosa contrattazione, smistamento negli abitacoli delle stesse dei mammocc’ (bambini, per i non indigeni), partenza in allegra processione, inerpicamento sui viottoli fino all’individuazione dello spazio idoneo dove stabilire l’accampamento e infine, colonizzazione del luogo.
Pur accampandoci sempre oltre, arrivati in cima era obbligatorio fermarsi alla Fonte di Santo Stefano. Mai avremmo rinunciato a fare il pieno di un’acqua considerata “miracolosa”. Tale deduzione mi deriva dai racconti dei più anziani che attribuivano a quell’acqua la guarigione da ogni sorta di malattia, dalla foruncolosi ai colpi apoplettici. Quindi era tutto un “bevi bevi anNonna-mamma-zia, che ti fa bene!”.
Per motivi antropologici mi urge una precisazione su una figura mitologica oggetto di un culto molto diffuso nella tradizione locale: la dea Nonna-mamma-zia. Pare fosse una potente divinità trimorfica, molto temuta sugli arenili sabbiosi ma, come vedrete, molto attiva anche in ambienti rupestri. Numerosi reperti la rappresentano sotto forma di donna minacciosa che scruta il mare con occhi stretti, braccio sinistro poggiato sul fianco generoso e mano destra messa di taglio in bocca. Risulta che tale divinità tutelasse la sopravvivenza degli infanti nelle situazioni di pericolo, vere o presunte che fossero.
Tornando a noi, fatto il pieno di acqua e individuato il luogo, la tribù provvedeva ad attrezzare l’area pic-nic. Gli uomini facevano un giro largo battendo forte i piedi e scuotendo le fratte con grandi rami per allontanare, così dicevano, le “bestie pericolose”. Bonificata l’area scendevano donne e bambini, si aprivano sedie, sdraie e tavolinetti. Noi piccoli, lasciati a piede libero, cominciavamo a sciamare dappertutto e la feminina divinità locale di cui sopra, nel pieno delle sue funzioni ed evidentemente non convinta delle operazioni di bonifica, emetteva a ciclo continuo suoni intimidatori per cercare di tenerci sempre in vista.
Prima di arrivare al pentolone devo fare una premessa. Erano tempi in cui il concetto di “comportamento ecologico” non aveva patria. Per carità, i nostri genitori raccoglievano tutte le tracce del nostro passaggio e le riportavano a valle ma, lo confesso, si accendevano fuochi liberi. Fatti con saggezza, ma sempre fuochi liberi erano.
Ma senza fuoco non c’è pentolone, quindi, per un attimo mettete da parte le sopravvenute e sacrosante regole del Parco e pentolone sia.
Dicevo? Ah sì. Fra i numerosi giochi ai quali ci dedicavamo, i grandi ci portavano in giro per il bosco a raccogliere legna. Quando il quantitativo era sufficiente si tornava alla base e la legna veniva posta sotto il treppiede, si accendeva il fuoco e si metteva a bollire il pentolone pieno di acqua miracolosa nella quale venivano cotti gli spaghetti aglio e olio più buoni della mia vita. Sulla brace che restava veniva poi poggiata la griglia per cuocere una tale quantità di cibo che potevamo sfamare il Congo. Gran finale con cocomero lasciato in fresco sotto una fratta.
Sì, lo so, non è esattamente il resoconto della giornata di vacanza di una famiglia milanese, ma che dobbiamo fare, nuie simm do Sud.
Comunque, dopo le abbondanti libagioni i maschi adulti spiaggiavano sulle sdraie per una mega pennica e noi ragazzini ne approfittavamo per continuare a giocare ai piccoli esploratori, nonostante incombessero su di noi i rituali “AHEEEEEEEE” urlati dalla dea Nonna-mamma-zia alla quale, evidentemente, l’abbondanza del cibo non provocava nessun disagio post-prandiale.
Tutto finiva all’imbrunire, quando si smontava l’accampamento e si tornava giù con noi piccoli sfiniti, felici e contenti.
Perché per noi bambini di pianura, di sabbia e telline, acqua salata e sole cocente, arrivare in quel bosco ombroso era il viaggio nel luogo più lontano, fantastico e misterioso che potessimo immaginare.
E per me, dopo tanti anni, è ancora un po’ così.
Tiziana Rizzi